L’importanza del fitocomplesso

Apriamo il 2023 con una rivista completamente rinnovata nella veste grafica che ci auguriamo sia gradita ai nostri lettori. Se abbiamo rinnovato l’abito, non è cambiata la nostra mission comunicativa, che si basa come sempre sul puntuale approfondimento tecnico-scientifico degli argomenti correlati alla filiera dell’erboristeria.

In sintonia con questo approccio, su questo numero abbiamo ripreso la questione dei prodotti vegetali contenenti idrossiantraceni con un articolo del nostro collaboratore Marco Biagi. Un argomento protagonista, come sapete, di un lungo e controverso iter regolatorio, conclusosi con l’approvazione del Regolamento (UE) 2021/468 con cui Bruxelles ha normato, e limitato, l’uso degli idrossiantraceni negli integratori alimentari.

Abbiamo voluto parlare ancora di droghe antrachinoniche per sostenere un approccio scientifico alla sicurezza di queste sostanze, che sia basato quindi sulla conoscenza della composizione chimica dei botanicals che le contengono, sulla loro farmacocinetica nelle matrici vegetali e sulla bibliografia tossicologica dei loro fitocomplessi.

Ed è proprio il fitocomplesso – una parola che in molti sembrano non intendere – l’elemento chiave, quello che fa la differenza, per affrontare la sicurezza delle piante medicinali in maniera razionale e radicata nella real life, svincolandola da un piano astratto ed esclusivamente teorico.

A tale proposito la letteratura scientifica offre vari riscontri, evidenziando come esista una chiara differenza tra la valutazione della sicurezza di singole molecole studiate in vitro e quella di estratti e preparazioni vegetali indagate come fitocomplesso in vivo. Studi pubblicati su riviste internazionali e dati recenti – ottenuti peraltro da laboratori diversi e facendo ricorso a metodologie diversificate e riportati nel nostro approfondimento – consentono un’interpretazione diversa e indubbiamente più positiva della sicurezza dei botanicals contenenti idrossiantraceni.

Questi materiali sono stati presentati alla Commissione Europea, non tanto per rimettere in discussione quanto è stato stabilito da Bruxelles per l’aloe e i suoi componenti ormai quasi due anni fa, quanto con l’intenzione di riuscire a influire, con argomentazioni scientifiche, sulla decisione che l’istituzione comunitaria dovrà assumere per senna, cascara, frangula e rabarbaro, alla fine del periodo di scrutinio di 4 anni stabilito dal Regolamento citato.

In via generale, però, la questione è ben più ampia e non riguarda soltanto le droghe antrachinoniche. È l’espressione piuttosto di una visione rigida sui preparati di origine vegetale che sta orientando le scelte dell’Europa e via via restringendo l’impiego di diverse sostanze nell’ambito alimentare, riservandole al comparto farmaceutico.

Tra i vari dossier aperti, uno riguarda il geranio africano (Pelargonium sidoides) o Umckaloabo nella lingua zulù, una pianta tradizionale che, grazie a una documentata attività antivirale e antibatterica, viene utilizzata nel trattamento dei problemi delle vie respiratorie.

Che cosa è accaduto? Una consultazione tra gli Stati membri, in base al Regolamento europeo 2015/2283, ha stabilito nel marzo 2022 che, in assenza di prove di consumo significativo in Europa negli alimenti precedente al 1997, Pelagornium sidoides rientra nella categoria dei novel food.

Bizzarramente ad aprire la strada in questa direzione è stato il Belgio, che per primo aveva introdotto la pianta nella lista Belfrit, per poi eliminarla dall’elenco delle piante impiegabili negli integratori e classificarla come nuovo alimento nella categoria “Prodotti alimentari derivanti da piante o parti di piante”.

Il Ministero della Salute italiano ha dato tempo agli operatori del settore di presentare le eventuali prove di un consumo significativo entro lo scorso 18 dicembre ma, come si capisce, è un gatto che si morde la coda e quindi, benché al momento di andare in stampa non siano stati emanati provvedimenti ad hoc, dal 2023 il pelargonio non potrà più essere impiegato negli integratori alimentari, ma soltanto come medicinale.

Le norme in vigore, infatti, non consentono la commercializzazione di prodotti alimentari contenenti novel food, a meno che non se ne richieda l’autorizzazione attivando una procedura ad hoc e un iter lungo e complesso. Ma questa è un’altra storia.