Quando si parla di utilizzo di erbe, piante medicinali e derivati, le donne sono protagoniste. Lo hanno confermato negli anni molte statistiche nazionali, come le indagini ISTAT di settore o, più di recente, una survey dell’Università degli Studi di Chieti, ma anche studi europei e internazionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, tra i fattori predittivi del ricorso ai preparati vegetali spicca l’appartenenza al genere femminile e lo stesso dato viene riportato da un’indagine qualitativa condotta nel Regno Unito.
Le donne sono tra le consumatrici più attente e affezionate di erbe e derivati e vi fanno ricorso in ogni fase della vita, dall’adolescenza alla menopausa, e successivamente come argine naturale al fisiologico processo di invecchiamento.
Questa propensione ha radici lontanissime: la conoscenza e l’utilizzo delle erbe nel passato è stata una prerogativa del mondo femminile. Erano le donne a coltivare gli orti come a raccogliere fiori, bacche e piante spontanee nei boschi, apprendendo con l’esperienza empirica le proprietà curative contro malanni di vario genere. Nell’età classica le herbariae erano donne esperte della natura, delle piante e della loro applicazione per affrontare i problemi di salute quotidiana, spesso legati alla vita femminile (ciclo mestruale, gravidanza, parto).
Si è così sedimentato nei secoli, spesso dimenticato dalla storia ufficiale, il contributo di medichesse, levatrici, herbariae al sapere erboristico della tradizione occidentale. Come segnala Maderna nel libro Medichesse. La vocazione femminile alla cura, si tratta di un aspetto antropologico e culturale comune a tutte le civiltà antiche, dove le donne, svolgendo un ruolo più statico nelle comunità, hanno approfondito i saperi legati alla raccolta delle piante salutari e commestibili e alla loro trasformazione, conservazione e somministrazione.
Questa competenza al femminile si ritrova in forma più strutturata nelle opere di Ildegarda di Bingen, la più celebre delle scienziate medievali, la quale ispirandosi alla teoria ippocratica dei Quattro Elementi ebbe intuizioni di grande modernità sull’impiego delle piante, elaborando un’idea di salute e malattia che prefigura il concetto contemporaneo della medicina olistica.
E in un’area a noi più vicina rivive nella figura di Trotula de Ruggiero, allieva e poi docente della Scuola Medica Salernitana, nutrita alle opere di Galeno e di Ippocrate e autrice di trattati sui temi della dermatologia e della ginecologia, in cui propose metodi innovativi per la sua epoca, sottolineando l’importanza dell’igiene, di una alimentazione equilibrata e dell’attività fisica. In uno dei suoi scritti per l’alito cattivo, essendo questo provocato da stomaco e intestini, consigliava “polvere di aloe, succo di assenzio e miele” e per la stipsi “magnesio, malva e semi di lino”.
Nelle società tradizionali dell’intero pianeta sono le donne a gestire le risorse vegetali utilizzate dall’uomo e diventano spesso le custodi delle conoscenze sulle piante locali: responsabili della gestione delle piante utili, sia domestiche sia selvatiche, sono anche raccoglitrici, giardiniere, erboriste e custodi dei semi (Howard, 2005), svolgendo un prezioso lavoro di conservazione delle specie botaniche. In America Latina, in aree poco urbanizzate come le Ande ecuadoriane, le principali risorse di salute sono tuttora le piante medicinali locali, delle quali le più esperte sono per lo più donne, e la consulenza medica viene richiesta solo quando questi rimedi non sono più sufficienti. Qui, come hanno raccontato tanti report etnografici, la conoscenza delle erbe si tramanda lungo linee femminili e i processi di socializzazione conducono alla trasmissione di questi saperi dalle più anziane alle donne giovani della comunità.
Venendo all’oggi non si può dimenticare Youyou Tu, la scienziata cinese che nel 2015 ha ricevuto il Premio Nobel per la medicina: la sua “riscoperta”, dopo anni di ricerca, dell’azione dell’artemisina trasse spunto da un testo della farmacopea tradizionale cinese sugli effetti antimalarici di Artemisia annua, il Zhou hou bei ji fang ((321 d.C.), che conteneva tra le ricette tradizionali, anche quelle utilizzate per le “febbri intermittenti” che caratterizzano la malaria.
Nel mese che celebra in tutto il mondo la ‘Giornata internazionale della donna’ il nostro augurio va alle erboriste che portano avanti questa bellissima tradizione, declinandola nella sua forma contemporanea.