A fronte della progressiva erosione del budget destinato alla spesa pubblica che connota le politiche statali, la parola d’ordine per i sistemi sanitari nazionali è sostenibilità.
Il nostro, come d’altronde tutti i sistemi sanitari pubblici dei Paesi industrializzati, si trova ad affrontare oggi, per lo più impreparato, una serie di fenomeni importanti: lo spreco per inefficienza delle già scarse risorse economiche, l’ineguaglianza nell’accesso alle cure, in palese contrasto con il dettato costituzionale e correlata al sottoutilizzo dei servizi sanitari ad alto valore aggiunto da parte dei ceti sociali meno abbienti, l’incapacità di agire efficacemente a livello di prevenzione.
A ciò si aggiungono le sfide che derivano da nuove domande e bisogni di salute delle popolazioni, basti pensare fra queste al costante innalzarsi dell’aspettativa di vita in Occidente o alle migrazioni dal Sud del mondo. Fenomeni in crescita con un ritmo ben superiore alle risorse disponibili, oggi che non esiste più, per ragioni direi strutturali, quella disponibilità agli investimenti pubblici che aveva caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento.
È appurato che una parte significativa degli sprechi in sanità sia riconducibile all’uso scorretto ed eccessivo di farmaci ed esami diagnostici (il 40% dei test diagnostici attuali è ritenuto ad esempio inappropriato). L’abuso delle tecnologie sanitarie rappresenta oggi la determinante principale dei fenomeni appena accennati, mentre l’eccessiva medicalizzazione è riconosciuta come una criticità rilevante dell’assistenza sanitaria e quando riguarda, come accade, condizioni normali come parto e menopausa è apertamente criticata.
La sostenibilità dei sistemi di cura rappresenta dunque una sfida globale e un obiettivo condiviso, almeno sul piano teorico, dalle grandi agenzie internazionali. Prima fra tutte l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che, nel documento strategico contenente le Linee guida 2014-2023, ha incoraggiato l’integrazione delle medicine tradizionali e complementari nei sistemi sanitari, sviluppando politiche e programmi nazionali in questa direzione.
La fitoterapia è una di queste, la più utilizzata a livello globale (circa l’80% della popolazione mondiale utilizza erbe a scopi salutistici) e sempre più diffusa nelle nostre metropoli industrializzate. Se impiegate con un approccio ecocompatibile e nella salvaguardia della biodiversità, le piante medicinali possono svolgere un ruolo in questa sfida che riguarda il futuro di tutti noi e del pianeta.
Con molteplici declinazioni: le erbe possono contribuire infatti alla sostenibilità a più livelli e non soltanto sostituendo, quando possibile, il farmaco nei problemi di salute, ma anche nella prevenzione e per il mantenimento del benessere. C’è poi il tema dell’inquinamento ambientale: studi recenti hanno dimostrato che le molecole dei farmaci alle concentrazioni e combinazioni simili a quelle rilevate nell’ambiente, possono avere degli importanti effetti tossicologici e il ricorso a prodotti di origine naturale può minimizzare questo fenomeno.
Infine c’è l’emergente fenomeno dell’antibiotico-resistenza, direttamente correlata all’abuso di farmaci, che ha preoccupanti ripercussioni a livello biologico, sanitario, economico e ambientale. L’Italia è tra i Paesi europei con i livelli più alti di antibiotico-resistenza, mentre si stima che negli Stati Uniti sia responsabile di circa 23.000 decessi all’anno, con costi che sfiorano i 20 miliardi di dollari.
La ricerca scientifica ha dimostrato che la fitoterapia può dare una mano anche in quest’ambito: ci sono oli essenziali attivi su stafilococchi resistenti alla meticillina, all’origine di gravi infezioni ospedaliere e diversi studi hanno evidenziato che l’associazione tra antibiotici e alcuni oli essenziali aumenta l’efficacia del farmaco e ne riduce il dosaggio necessario.
Ricerche in questo campo sono in corso anche in Italia, ad esempio il team del Centro di medicina integrativa – Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi di Firenze sta lavorando sugli oli essenziali attivi sui batteri resistenti isolati da persone affette da fibrosi cistica.
Gli erboristi possono quindi diventare i “guardiani” di questo approccio sostenibile e fare molto in tale prospettiva. Di temi affini parla l’articolo di Marco Valussi, che potete leggere alla pagina 20 e segg. della rivista di ottobre.