Chi sale e chi scende

Negli ultimi anni un numero crescente di studi scientifici sta confermando azioni e proprietà delle piante medicinali tramandate dalla tradizione etnobotanica e popolare, fornendo così basi sempre più solide per l’impiego di queste risorse per il benessere.

Spulciando qua e là nelle riviste internazionali si legge, ad esempio, che un recente studio sull’echinacea ha evidenziato, sulla base di un’ampia documentazione, buone prove di efficacia di questa pianta nelle infezioni respiratorie, soprattutto per gli interventi acuti di breve e media durata. Secondo un’altra ricerca gli estratti di finocchio e i loro componenti attivi potrebbero aprire prospettive interessanti per la prevenzione delle complicazioni del diabete, mentre la soia, di norma passata al vaglio dei ricercatori per i disturbi della menopausa, ha mostrato interessanti proprietà anti-infiammatorie, attraverso l’inibizione di sostanze chimiche pro-infiammatorie. Ricercatori coreani hanno poi approfondito le potenzialità dei principali componenti dello zenzero, una pianta efficace in molte condizioni, nel trattamento della dermatite allergica e dell’eczema. E lo zenzero emerge anche come galattagogo.

Più controversa invece una ricerca sul mirtillo americano (Vaccinium macrocarpon), noto anche come cranberry, un arbusto originario dell’America del Nord impiegato in particolare per le infezioni ricorrenti delle vie urinarie (IVU). Non è certo il primo studio su questa pianta, da anni utilizzata anche in Italia. Diversi lavori (uno dei più recenti è datato settembre 2016) ne hanno rilevato l’efficacia nella prevenzione delle cistiti ricorrenti, attraverso un meccanismo d’azione che sembra correlato alla capacità delle proantocianine del fitocomplesso di inibire l’adesione dei batteri patogeni alle pareti cellulari. Una revisione sistematica della Cochrane Collaboration del 2012 aveva però ridimensionato notevolmente l’utilità del mirtillo americano in questo ambito.

Sulla stessa scia si pone uno studio uscito lo scorso novembre su Jama, la rivista dei medici statunitensi, secondo cui l’assunzione di integratori di mirtillo americano non comporta differenze significative rispetto al placebo nelle infezioni del tratto urinario.

L’indagine, condotta su 185 donne residenti in case di riposo, è stata affiancata sullo stesso numero di Jama da un editoriale che invita i sanitari a mettere in soffitta la pianta e a utilizzare altri metodi per questa tipologia di infezioni. Subito si è messo in moto il dibattito: qualcuno ha fatto notare che la ricerca, pur essendo ben disegnata nell’insieme, non è però ineccepibile, poiché è stato valutato solo un estratto di mirtilli e non diversi tipi (a fronte di una grande variabilità delle formulazioni), su un gruppo di persone relativamente piccolo e con un controllo placebo, e non con i farmaci normalmente impiegati in questi casi. Gli stessi autori hanno poi rilevato fra i possibili problemi dello studio il ricorso a capsule e non al succo, una scelta funzionale a una maggiore compliance dei pazienti, che non sempre amano il sapore acidulo di questa bacca. In questo modo, però, è stato ridotto l’apporto di acqua, che gioca invece un ruolo importante per l’esito della terapia.

Altri esperti hanno aggiunto che questo studio non è rappresentativo dei campioni di popolazione che abitualmente assumono il mirtillo americano per le infezioni urinarie, cioè donne comuni con precedenti di cistite, ma ha riguardato persone molto anziane (età media 86 anni) che, in maggioranza, non soffrivano di infezioni urinarie ricorrenti. Molti perciò hanno giudicato sbrigativo e perentorio l’editoriale con cui Lindsay E. Nicolle esorta ad abbandonare per sempre il mirtillo americano per questi problemi.

Quali riflessioni? Scienza è sinonimo di ricerca continua all’interno di un percorso aperto, dove ogni acquisizione deve essere sempre sottoposta a nuovi controlli, eventuali rettifiche e rielaborazioni. La ricerca scientifica è quindi per definizione incompatibile con ogni pretesa di staticità.

Sappiamo che prima di essere accettati come prove di efficacia, i risultati di uno studio scientifico devono essere confermati con altri studi di qualità su ampi gruppi di persone, da abbinare a nuove revisioni, e questo naturalmente deve applicarsi anche alle ricerche che riportano risultati negativi.