Dall’etnobotanica alla produzione attuale: un percorso virtuoso

La lettura di articoli internazionali è sempre ricca di stimoli nonostante le differenze, talora consistenti, tra le situazioni culturali e geografiche in cui queste ricerche maturano.

Nella mole di studi scientifici sulle piante medicinali, mi ha colpito di recente un articolo scritto a più mani da ricercatori olandesi, canadesi e statunitensi e pubblicato sulla rivista Reproductive Biomedicine & Society Online. Il lavoro, intitolato “Herbal fertility treatments used in North America from colonial times to 1900, and their potential for improving the success rate of assisted reproductive technology”, analizza, sulla base di molti e dettagliati documenti d’epoca, l’impiego delle erbe per migliorare la fertilità della donna nell’America del Nord dall’epoca coloniale fino agli albori del Novecento.

Gli autori del documento hanno effettuato questa revisione storica essenzialmente per due ragioni: innanzitutto perché molte donne si rivolgono già alle piante medicinali per migliorare le loro possibilità di concepimento e in secondo luogo perché un’indagine di questa natura – così scrivono – potrebbe fornire degli elementi utili per sviluppare preparati con ingredienti vegetali per le donne che oggi hanno questo tipo di problemi. Sottolineano, ovviamente, che il diverso contesto storico, sociale e sanitario non consente facili sovrapposizioni: ad esempio, alcuni rimedi a base di erbe che in passato hanno determinato benefici sull’infertilità femminile, hanno in realtà funzionato agendo sui sintomi della malnutrizione, una delle cause più comuni di infertilità nel passato, mentre nelle società industrializzate contemporanee il problema è piuttosto la cattiva nutrizione o il suo eccesso.

Lo studio vaglia, dunque, le potenzialità delle piante della tradizione nordamericana, mettendo a fuoco in particolare l’impiego per migliorare le percentuali di successo delle tecniche di riproduzione assistita e osserva che la Cimicifuga, l’Angelica, Scutellaria baicalensis e Glycyrrhiza uralensis sono tra le piante che meriterebbero ricerche più approfondite in questa direzione.

Un altro studio – pubblicato dal team di Koh Hwee Ling del Dipartimento di Farmacia dell’Università Nazionale di Singapore – ha evidenziato, invece, come alcune piante tradizionali di quell’area – Leea indica, Vernonia amygdalina e Vitex trifolia ecc. oltre ad attirare le farfalle più di altre, abbiano dimostrato in laboratorio un’interessante attività di chemioprevenzione sullo sviluppo dei tumori della mammella, del colon, della cervice uterina e del fegato.

L’etnobotanica è una scienza altamente interdisciplinare che, associando le competenze di più discipline (botanica, farmacologia, fitochimica, antropologia culturale), offre un valido strumento per recuperare l’ampio patrimonio di informazioni sull’uso delle piante officinali e delle pratiche tradizionali che altrimenti andrebbe perduto. Soprattutto questo lavoro d’indagine, oltre a contribuire alla salvaguardia della biodiversità naturale e culturale dei territori, può avere ricadute di rilievo anche sul piano pratico, aprendo la strada per l’individuazione di nuove molecole biologicamente attive come fonte possibile di nuovi farmaci, cosmetici, integratori.

L’approccio di convalida al materiale storico è dunque interessante, se sostenuto da un solido lavoro clinico moderno. Lo studio etnobotanico, se non fine a sé stesso e dopo le opportune verifiche scientifiche anche sul piano della sicurezza, può quindi rappresentare una fonte preziosa per ampliare il bagaglio della fitoterapia moderna.

Su questo fronte credo valga la pena far avanzare la ricerca e costruire tutte le sinergie possibili tra mondo accademico, industriale e professionale, creando ponti reali, e non più soltanto uno slogan, tra le tradizioni popolari e la moderna produzione di preparati vegetali. A disposizione c’è il grande patrimonio di conoscenze della nostra area mediterranea, per non parlare di regioni ancora per molti versi inesplorate come America Latina, foresta amazzonica, Paesi balcanici, Sud est asiatico. Soltanto la Cina, almeno negli ultimi anni, ha iniziato a muoversi decisamente in questa direzione mettendo in campo, come fa d’abitudine, cospicui investimenti.

Anche in quest’ottica si può crescere con logica e spirito di filiera, oggi sempre più necessari.

Lo stesso spirito che ritroveremo a Bologna al Sana (6-9 settembre 2019), dove vi diamo appuntamento ricordandovi la cerimonia di premiazione della 2a edizione del Premio Erboristeria dell’Anno 2019 di domenica 8 settembre, presso lo stand di Tecniche Nuove. Seguiteci sulla nostra pagina Facebook  (@erboristanews) per i dettagli.