Batteri super-resistenti, la sfida

È stata definita “la più grande sfida della medicina contemporanea”. Talmente grande che i rappresentanti dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite hanno firmato lo scorso settembre un documento che impegna i 193 Paesi membri a mettere in atto politiche e iniziative per contrastare il fenomeno. Per capire la portata del problema, basti pensare che in precedenza soltanto l’Hiv, le malattie croniche e l’epidemia di Ebola si erano trovati al centro di un’assise dell’ONU dedicata a un‘emergenza di salute pubblica.

Stiamo parlando dell’antibioticoresistenza, o resistenza antimicrobica, un tema di grande attualità che abbiamo voluto approfondire su questo numero della rivista con il contributo di esperti del settore e ricercatori.

Il termine, noto sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, definisce il fenomeno per il quale un batterio risulta resistente all’attività di un farmaco antimicrobico.

Come precisa il Centro europeo di controllo e prevenzione delle malattie (ECDC), la resistenza agli antibiotici è un fenomeno naturale causato dalle mutazioni genetiche a cui vanno incontro i batteri degli antibiotici che, negli anni più recenti, ha però assunto dimensioni eccezionali. La situazione si è infatti deteriorata poiché stanno comparendo nuovi ceppi batterici resistenti contemporaneamente a più antibiotici, i cosiddetti batteri “multiresistenti”. E risale al maggio 2016 la scoperta, da parte dei ricercatori del Dipartimento della difesa statunitense, di un super-batterio resistente a qualsiasi tipo di antibiotici, compresa la colistina, considerata l’ultima spiaggia di questi medicinali.

Pur essendo naturale, il fenomeno è stato però accelerato e aggravato da un uso scorretto degli antibiotici. Tra le pratiche considerate più dannose vi è innanzitutto l’abitudine di fare ricorso a questi farmaci anche per trattare le infezioni virali, dove non hanno alcuna utilità, così come la loro assunzione in modo diverso dalle prescrizioni. Per non parlare poi del loro impiego sugli animali a fini meramente produttivi, per favorirne cioè la crescita ed evitare le malattie negli ambienti malsani e sovraffollati degli allevamenti intensivi.

Che cosa può comportare tutto questo? Al di là delle drammatizzazioni cui si prestano i temi correlati alla salute globale, il rischio è molto concreto. C’è la possibilità che anche infezioni minori non possano più essere trattate, tanto che la Società europea di microbiologia clinica (Escmid) paventa un “Armageddon antibiotici”, con oltre 1 milione di morti attesi nel 2025 in Europa. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha varato un Piano strategico globale con le relative linee guida, invitando a intraprendere con urgenza azioni efficaci.

L’Italia in quest’ambito non può vantare comportamenti virtuosi, essendo uno dei Paesi europei con l’impiego più alto di antibiotici e anche il terzo maggiore utilizzatore di questi farmaci negli allevamenti. Non è dunque un caso se l’antibiotico-resistenza è raddoppiata negli ultimi 10 anni, passando dal 16-17% nel 2005 al 34% del 2014 (dati Ocse).

È necessario perciò cambiare marcia. Senza indugi. In questa inversione di rotta, che include in primis la riduzione dell’uso improprio degli antibiotici e anche una diversa gestione degli allevamenti, sono chiamati tutti a fare la propria parte. Se alla comunità medica spetta un ruolo centrale, è necessaria anche una “rivoluzione culturale” nella popolazione, fra le persone, per affermare e radicare un approccio diverso alla salute, meno invasivo e interventista. Una visione nella quale i farmaci svolgono il loro fondamentale lavoro, ma dove si punta soprattutto alla costruzione di un benessere complessivo.

Le piante medicinali non rappresentano certo la soluzione di un problema così complesso, sarebbe semplicistico anche solo pensarlo, ma possono avere un piccolo ruolo nel mosaico delle azioni da realizzare. Come? Lo scoprirete nell’articolo a pagina 16 e segg. del n.3 – marzo 2017.

Buona lettura!