Se 35 milioni di dollari vi sembran pochi…

mariella fiera parmaÈ questa la cifra che il National Center for Complementary and Integrative Health degli Stati Uniti, insieme ad altri enti federali, ha stanziato per la ricerca sugli integratori a base di erbe e sui prodotti naturali. Sì, stiamo parlando proprio di piante come la cimicifuga, il fieno greco, la maca, il cardo mariano, la liquerizia, la valeriana o sostanze di origine naturale come il resveratrolo. Gli studi sono stati affidati a cinque centri specializzati nella ricerca e prenderanno in esame l’efficacia, il meccanismo d’azione e la sicurezza di un certo numero di preparati a base di erbe, quelli che risultano fra i più utilizzati dalla popolazione statunitense.

Molto interessanti i programmi, che si svilupperanno nell’arco di cinque anni. Uno, ad esempio, riguarda il ruolo degli integratori vegetali nella resilienza cognitiva e psicologica e studierà i meccanismi d’azione dei polifenoli su soggetti sottoposti a stress vari, inclusa la privazione del sonno. Un altro si occupa di piante per la salute della donna e un altro ancora valuterà la capacità di alcuni preparati naturali di favorire la resilienza metabolica, cioè come preservare lo stato di salute in presenza di fattori stressogeni quali i processi infiammatori o una dieta ad alto tenore di grassi, esplorando anche il ruolo del microbioma intestinale.

Cifre e progetti di questa portata sono un’utopia in Italia, dove la ricerca pubblica arranca fra i continui tagli della spesa, mentre quella privata di rado mette a fuoco questa tipologia di prodotti. E a proposito di ricerca italiana, ha fatto discutere uno studio condotto presso l’Università di Torino e pubblicato di recente sulle riviste Nature Reviews Urology e The Prostate. A leggere i resoconti dei media, il lavoro avrebbe dimostrato una correlazione fra una miscela di sostanze di origine naturale e il carcinoma prostatico. Più esplicitamente, diverse testate hanno titolato: “Gli integratori provocano il cancro della prostata”. Tuttavia leggendo la pubblicazione e i commenti di autorevoli esperti della materia, ci si accorge che la questione è un po’ più complessa.

Andiamo per ordine. Lo studio, un doppio cieco controllato con placebo, ha riguardato 60 persone già affette da lesioni pre-cancerose della prostata e quindi ad alto rischio di sviluppare questa neoplasia. Il prodotto testato è una miscela composta da selenio, licopene e catechine del tè verde. La prima osservazione è che un campione di 60 soggetti è abbastanza piccolo; se poi si considera che di questi hanno assunto il preparato soltanto la metà, dato che ai rimanenti è stato somministrato un placebo, il numero si fa ancora più esiguo. In realtà, per valutare la sicurezza di un preparato complesso come quello di cui si parla, sarebbero serviti grandi numeri e un diverso disegno dello studio. Un altro fattore di criticità è dato dai dosaggi elevati di due delle sostanze testate (licopene e catechine del tè verde) rispetto a quelli raccomandati dalle linee guida del Ministero della Salute per gli integratori alimentari. La scarsa numerosità del campione e l’impostazione stessa della ricerca da sole, quindi, non consentirebbero di trarre quelle conclusioni definitive di cui si è parlato sui media. Vale poi la pena considerare che le sostanze oggetto dello studio, prese singolarmente e valutate in studi molto più ampi, si sono dimostrate efficaci nel conservare la fisiologia della prostata; che le catechine del tè verde sono studiate da anni, e con risultati interessanti, per l’attività di prevenzione verso il tumore della prostata e che una recente metanalisi sul licopene ha evidenziato un’associazione inversa tra il consumo di questa sostanza e il rischio di carcinoma della prostata.

La ricerca è uno strumento fondamentale per conoscere meglio le azioni e le proprietà dei preparati di origine naturale. Non tutte le ricerche però sono perfette e non sempre i protocolli utilizzati sono adeguati; quando ciò accade i risultati vengono discussi alla luce di valutazioni di tipo scientifico e sono uno stimolo per migliorare la qualità degli studi. Un’altra cosa è divulgare informazioni scientifiche complesse e delicate a colpi di generalizzazioni e semplificazioni allarmistiche. Questo tipo di comunicazione non fa bene a nessuno.